martedì 7 giugno 2011

Essere donna oggi... a lagos

Da Internazionale  #900
Chimamanda Ngozi Adichie, Financial Times, Gran Bretagna
Un’umida sera di due anni fa. Sono in macchina con un amico e abbasso il finestrino per dare la mancia a un ragazzo, uno delle migliaia di giovani disoccupati di Lagos che ciondolano in giro, allegri e pieni di risorse, e ti aiutano a parcheggiare aspettandosi qualche spicciolo. Tiro fuori i soldi dalla mia borsa. Lui li prende con un sorriso riconoscente. Poi guarda il mio amico e dice: “Grazie, signore!”.
Essere relativamente giovane (poco più di trent’anni) e donna in una città della Nigeria significa questo. Stai guidando, un poliziotto ti ferma e delle due l’una: ti guarda con occhi maliziosi dicendo “bella zietta, mi vuoi sposare?”, oppure sogghigna e lascia nell’aria una domanda così pesante che non c’è neppure bisogno di darle voce: “Chi è l’uomo che ti ha comprato questa macchina e cos’hai dovuto fare per convincerlo?”. Hai un’alternativa: recitare la parte della donna dura e arrabbiata quindi offendere la sua virilità, con il risultato che ti costringerà a parcheggiare sul lato della strada pretendendo un documento dopo l’altro. Oppure recitare la parte della giovane smorfiosa e lusingare la sua mascolinità, già resa fragile da una paga misera e varie altre vergogne dello stato nigeriano. È un’alternativa che mi rende furiosa. Sono furiosa per l’idea scontata in partenza che essere giovane e donna significhi non essere in grado di guadagnarsi da vivere senza un uomo. Eppure. A volte faccio la smorfiosa e sorrido, perché sono in ritardo oppure ho caldo o semplicemente perché non sono abbastanza fedele ai miei princìpi femministi.
Ho un’amica che, apparentemente, è un modello da imitare. È bella, ha due lauree di un college americano della Ivy League e un marito affascinante con lo stesso curriculum accademico, ha due figli che hanno cominciato a leggere a due anni, sulle riviste è sempre ai primi posti nella classifica delle donne nigeriane di successo, negli ultimi dieci anni ha lavorato in società di consulenza, gestione di hedge fund e organizzazioni non governative, insegna alle ragazze come avere successo in un mondo dominato dagli uomini. Eppure.
Un giorno mi ha detto di aver smesso di concedere interviste perché al marito non piacevano le sue foto sui giornali, e di avere anche deciso di prendere il cognome del marito perché lui era seccato che sul lavoro lei continuasse a usare il suo. Espressioni come “onorarlo” e “per la serenità del mio matrimonio” le sono rotolate giù dalla bocca formando quello che ho visualizzato come un tizzone rovente di autocontrollo.
Un’altra mia amica è molto attraente, molto istruita, siede nel consiglio di amministrazione di varie aziende e si occupa di quelle attività di management che per me sono arabo. È nubile. Ha qualche anno più di me, ma sembra molto più giovane. La prima volta che ha partecipato alla riunione di un consiglio di amministrazione un uomo, dopo esserle stato presentato, le ha chiesto: “Lei di chi è moglie o figlia?”. Perché secondo lui quella era l’unica possibile spiegazione della sua presenza lì. È venuto fuori che lei era l’amministratore delegato. Eppure. Vive in una città dove le sue amiche non sognano di diventare amministratore delegato, ma di sposarne uno, una città dove il fatto di non essere sposata è considerato un affronto, dove il matrimonio comporta più prestigio sociale e politico di quanto dovrebbe.
Un’altra mia amica è una scrittrice di talento, una donna schietta che innervosisce la gente discutendo apertamente di sesso, una donna che si definisce femminista e parla molto di uguaglianza di genere e di cambiare il sistema. Eppure. Guadagna più del marito, ma una volta mi ha raccontato che era lui a pagare l’affitto, perché quello è un dovere dell’uomo. “Anche se lui è in bolletta e io ho soldi, per poter pagare l’affitto va a chiedere un prestito”. Ha fatto una pausa, arrotolandosi questa contraddizione intorno alla lingua, e poi ha aggiunto. “Forse è per via della nostra cultura. È quello che loro ci hanno insegnato”.
Quel “loro” c’è sempre, ovviamente. Due anni fa mio cognato e io come al solito parlavamo di politica, sprofondati nei divani del suo salotto di Lagos.
“Credo che tra qualche anno mi candiderò per diventare governatrice”, ho detto con l’aria pensosa di chi crede solo in parte a quello che dice.
“Non diventeresti mai governatrice”, ha subito reagito mio cognato. “Potresti diventare senatrice, non governatrice. Non una donna”.
Quello che voleva dire è che un governatore ha troppo potere e controlla troppi soldi, e nessuna di queste cose poteva essere lasciata a una donna da questi invisibili “loro”. Eppure. So benissimo che quindici anni fa non avrebbe detto “potresti diventare senatrice”. Il governo civile ha permesso una maggiore partecipazione delle donne alla politica e i ministri più popolari ed efficaci degli ultimi dieci anni sono stati donne. Nei prossimi dieci anni, mio cognato probabilmente sarà smentito dai fatti. Nei prossimi trent’anni sicuramente sarà smentito dai fatti. Però dovrebbe essere sposata, la donna che diventerà governatrice.
Il mio primo romanzo è entrato nei programmi di liceo dell’Africa Occidentale. Il mio secondo romanzo si studia all’università. Una domanda che sono quasi sempre sicura di sentirmi rivolgere nelle interviste è qualche variante di: apprezziamo il lavoro che sta facendo e i suoi romanzi sono importanti, ma quand’è che si sposa? Io rifiuto di accettare che l’istituzione del matrimonio sia quello che mi dà valore, e rifiuto di apparire stupida, timida o entrambe. È un equilibrio precario.
“Farebbe questa domanda a uno scrittore maschio della mia età?”, ho chiesto una volta a un giornalista di Lagos.
“No”, ha risposto guardandomi come se fossi un po’ scema. “Ma lei non è un maschio”.
Traduzione di Giuseppina Cavallo.
Internazionale, numero 900, 2 giugno 2011
Chimamanda Ngozi Adichie è una scrittrice nigeriana nata nel 1977. È autrice di L’ibisco viola e Metà di un sole giallo. Questo articolo è uscito sul Financial Times con il titolo “A young female is unsuccessful without a man in Nigeria?”
Illustrazione di Angelo Monne.

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